NATO 2020 un mondo a misura di banchiere
sabato 12 gennaio 2013
un nuovo passo in direzione di una sardegna cayenna d'italia. Di pochi giorni fà, la notizia che le nuovissime strutture carcerarie di Uta e Bancali (SS), saranno destinate ad ospitare a breve 188 detenuti in regime di 41 bis. Si accelerano i tempi per ultimare le strutture destinate a questa particolare condizione detentiva, e non solo a Sassari e Cagliari, anche la nuova ala del carcere di Badu è Carros e le nuove carceri di Tempio e Oristano classificati dal DAP ( Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) come AS3 cioè di massima sicurezza. Si tratta in maggioranza di detenuti per reati di mafia e camorra e tra di essi non figura nessun sardo, nonostante le numerosissime richieste di avvicinamento dei parenti dei prigionieri isolani costretti a trasferte rare e costosissime. Nei piani del ministero infatti, questo trasferimento in massa ha come scopo principale aumentare l'isolamento carcerario trasformandolo anche in isolamento geografico. Nella testa dei funzionari dello stato italiano infatti, la Sardegna è ancora un isola di confino irraggiungibile da qualsiasi fenomeno esterno, infiltrazione mafiosa sul territorio compresa. Come se fossimo ancora nella fine dell '800 e non si sapesse cosa è successo in tutte le parti del territorio sotto il controllo dello stato italiano, quando si sono concentrati centinaia di mafiosi e camorristi nello stesso spazio. Altro punto interessante di questi avvenimenti è che tutti questi trasferimenti dal continente stanno iniziando a colmare le nuove mega galere sarde, continuando di questo passo le riempiranno entro quest'estate, quindi viene a saltare una delle giustificazioni "umanitarie" per gli investimenti in galere in sardegna, cioè lo spostamento e la chiusura di carceri strutturalmente indecenti come San Sebastiano, infatti se tutti i nuovi posti verranno, passateci il termine, occupati da trasferiti dal continente, dove dovrebbero andare a finire i carcerati stipati nei tuguri del ministero degli interni?
giovedì 8 novembre 2012
sabato 14 luglio 2012
mercoledì 11 luglio 2012
mercoledì 11 aprile 2012
Quattro nuove carceri in Sardegna, notizia non nuova, per quanto tenuta il più possibile sotto silenzio.
Uno di questi, sorge a pochi chilometri dalla città di Sassari (Bancali), 53 milioni e 710 mila euro di investimento affidato alla ditta Anemone, già costruttore del palazzo delle conferenze a La Maddalena in vista del G8, la quale si è conquistata le pagine della cronaca per un giro di favori, appalti e corruzione.
Ecco a voi, allora, un piccolo reportage sulla nuova galera di Bancali in costruzione dove si ospiteranno i detenuti comuni ma anche detenuti a regime di alta sorveglianza.
Si arriva alla galera prendendo la strada che da Sassari porta a Bancali, e da lì la camionabile per Porto Torres. Ve la troverete alla vostra destra, tra i verdissimi campi dove ancora qualche testardo preferisce coltivare la terra piuttosto che venderla. L’impatto visivo è devastante …. un mostro del genere non te lo aspetti proprio, un quartiere intero sputato sulla piana di Bancali, mura infinite, filo spinato ma soprattutto un sistema di controllo accurato fatto di telecamere e fotoelettriche ad ogni passo. Intorno il nulla un panorama piatto dove il gigantismo malato del nuovo mega carcere domina in maniera opprimente.
Allora ecco il consiglio per il prossima weekend: una bella gita al carcere di Bancali…chissà quante domande sorgerebbero davanti allo sfoggio di tale capacità di spesa e rapidità di realizzazione…
Ospedali? Scuole, case? Servizi o strade? Neanche un euro disponibile…
Per spedirvi in galera?... capitali illimitati.
mercoledì 7 marzo 2012
I numeri sembrano essere
diventati lo strumento con cui misurare la nostra vita, i nostri desideri, le
nostre miserie. E allora, ecco i numeri con cui lo Stato pensa alla Sardegna
dei prossimi anni: 15 radar, 4 nuove carceri, 517 ettari di terreno per la
nuova caserma della Brigata Sassari, 1.5 km di pista militare nella Poligono
Interforze del Salto di Quirra. Una nuova ondata di affaristi e speculazione?
Anche, ma soprattutto un nuovo modo di concepire l’isola secondo il documento
“Nato 2020 Urban Operations”. Perché?
NATO 2020 URBAN
OPERATIONS
“Sapremo ciò che ha fatto una qualsiasi persona dal primo
momento di vita sino all’ultimo”: questo il sogno di Monsieur Guillauté,
ufficiale di polizia nella Francia di metà ‘700. Un sogno che sembra essere condiviso
da molti Stati, in particolare Italia, Canada, Francia, Germania, Gran
Bretagna, Olanda e Stati Uniti. Da questo sogno nasce “Nato 2020 Urban
Operations”, un documento al quale lavorano dal 1998 esperti appartenenti alle
sette nazioni e che analizza i futuri (per noi oramai presenti) scenari
internazionali. Obiettivo: delineare una politica di controllo e gestione della
conflittualità che la crisi mondiale porterà con sé. Novità: le città saranno
gli scenari di battaglia, dentro i confini dei moderni Stati Occidentali.
Nato 2020, infatti, parte
da un’analisi del contesto socio-economico che si produrrà proprio a partire
dalla metà del 2000 per raggiungere la fase più acuta nel 2020: la popolazione
mondiale tenderà a installarsi sempre più nei grossi agglomerati urbani,
creando delle sacche di povertà che non troveranno risposta nelle politiche
sociali sempre più ridotte all’osso dagli Stati in grave crisi finanziaria. Una
vera e propria “urbanizzazione della povertà”[1] che
porterà gli Stati a doversi confrontare con una nuova minaccia: “gli
informali”, una massa di individui senza
sbocchi occupazionali e senza alternative di vita che rischierà di far
esplodere la propria disillusione in rivolte spontanee. Non dobbiamo
pensare alla massa in stile ottocentesco, fatta di senza lavoro, senza tetto
o poveri della strada, poiché in questa
nuova massa ci saranno anche i giovani figli di un lontano benessere, i
disoccupati non più riassorbibili dal mercato del lavoro per motivi di età, i
lavoratori precari; la disillusione sarà la loro costante, una generazione
allevata con la promessa di un futuro che si troverà invece senza alcuna
prospettiva possibile. Una disillusione che si rivolgerà tanto alla politica
istituzionale, quanto ai tradizionali strumenti di rivendicazione, dai
sindacati agli altri mediatori, visti come parte integrante di un sistema che
offre solo precarietà economica ed esistenziale. Il nemico (come viene chiamato
nel documento Nato 2020) da cui lo Stato dovrà guardarsi non sarà, quindi, lo straniero
lontano né tantomeno organizzato in un
esercito regolare; il nemico sarà
“interno e informale”, cioè presente dentro i propri confini e fuori da
strutture di mediazione che li renderanno difficili da gestire.
Basta guardare agli
avvenimenti di questi ultimi anni per capire che quanto veniva previsto in Nato
2020 non si discosta molto dalla realtà che stiamo vivendo, anzi sembra seguire
un copione già immaginato e ancora in corso d’opera. Davanti a questo nuovo
quadro internazionale, dove gli Stati si troveranno a dover gestire situazioni
di conflittualità dentro i confini urbani, Nato
2020 propone un nuovo ed articolato approccio repressivo (denominato manoeuvrist, ossia di manovra) con
l’obiettivo di prevenire le rivolte di questi irregolari ed evitare il contagio
tra i paesi. L’obiettivo è riattualizzare
le strategie di controllo e gestione della conflittualità sociale,
adattandole al nuovo contesto urbano per “frantumare la coesione e la volontà
di combattere” del nemico.
ELEMENTI DI METODOLOGIA
OPERATIVA
Nato 2020 offre le coordinate per gestire le nuove
operazioni urbane che dovranno basarsi sulla nozione di USECT: Understand
(Comprendere), Shape (Modellare), Engage (Impegno), Consolidate
(Consolidamento), Transition (Transizione); cinque funzioni che permettono,
attraverso l’azione ISTAR (Intelligence Surveillance Target Acquisition and
Reconnaissance), di conoscere la natura del nemico al fine di controllare
l’ambiente urbano entro cui il conflitto può esplodere.
La nuova politica di controllo
si baserà, quindi, sui seguenti criteri:
* Comprendere: è la funzione che occupa, insieme alle successive due,
la posizione più importante perché rientra nella possibilità di prevenire il
conflitto e gestirlo nel momento in cui esplode. La conoscenza dettagliata del
territorio, tanto nella sua accezione fisica quanto in quella culturale,
diventa fondamentale al fine di tracciare
un profilo psico-sociale degli abitanti per individuare i potenziali nemici,
gli elementi neutrali e le figure socialmente rilevanti. In quest’ottica di
analisi del territorio rientra anche il ruolo svolto dalle scienze sociali
(sociologia, criminologia, psicologia, statistica ecc..) che con un lavoro
costante di mappatura offrono informazioni utili per un intervento militare mirato.
Non va dimenticata l’attenzione verso l’individuazione
delle “realtà insorgenti” le quali “operano nel mezzo di una popolazione da
cui sono spesso indistinguibili” che
possono fungere da catalizzatori della rivolta.
* Modellare: gestire lo
spazio per ottimizzare la mobilità dei militari sia per esigenze tattiche
sia per controllare e prevenire i movimenti del nemico e delle masse non
coinvolte nei combattimenti. In quest’ottica, si tenderà a isolare porzioni di
territorio sia per proteggere le infrastrutture utili sia per isolare il
nemico: particolare rilevanza viene assunta dall’isolamento informatico per
bloccare, anche attraverso il controllo dei campi elettromagnetici, le capacità
comunicative dei rivoltosi.
* Impegno: gestire una situazione di conflittualità prevede, non solo
l’attacco diretto alle forze nemiche in maniera selettiva e mirata, ma anche
gestire gli effetti del conflitto sulla popolazione non combattente. E poiché,
secondo Nato 2020, il campo d’azione va “dal conflitto su larga scala
all’assistenza umanitaria”, è necessaria una contiguità strettissima tra il piano militare e il piano civile. I
militari non saranno solo coloro che intervengono in lontani scenari di guerra
o con funzione repressiva, ma anche coloro i quali gestiranno le necessità dei
civili. Per meglio consolidare questa fusione tra civile e militare, diventa
importante radicare nell’immaginario
comune la figura del militare impegnato in operazioni umanitarie o nella
gestione del normale ordine pubblico. Abituati alla presenza dei soldati
nelle strade, negli stadi, nei quartieri, non avremo più la percezione di una
militarizzazione del territorio ma solo di una sua normale amministrazione dove
il militare diventa protagonista.
* Consolidamento: gestita l’esplosione del conflitto sociale, diventa
importante un’attività di disarticolazione
del nemico col fine di prevenire l’insorgere delle forze sconfitte; gli
strumenti saranno quelli della collaborazione con le autorità locali, del
mobbing up, ossia dell’epurazione dei nemici, e infine il trattamento dei
prigionieri relegati nelle nuove carceri.
* Transizione: tappa finale, il
ristabilimento della legge (“the rule of law”) attraverso la ricostituzione
delle autorità e degli eserciti locali che garantiscano una nuova condizione di
pacificazione sociale basata sul controllo costante e pervasivo del territorio
e su una messa al margine degli elementi riottosi.
Se tutto questo vi sembra parte di uno scenario
fantapolitico, meno fantasioso e più politico è il via dato da Camera e Senato
al trattato di Velsen che entra ufficialmente in vigore in Italia il 12 giugno
2010. Con questo sconosciuto protocollo il 18 ottobre 2007 Francia, Spagna,
Olanda, Portogallo e Italia davano vita alla Eurogendfor, ossia la Forza di Gendarmeria Europea (EGF) con il
compito di “condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare,
svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nelle
mansioni ordinarie; assolvere compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico,
attività di intelligence, mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici”.
Una vera e propria forza di polizia i cui compiti spaziano dal mantenimento
dell’ordine pubblico alla caccia all’eversivo, dalle azioni più prettamente
civili a quelle di carattere militare-repressivo, assumendo così tutte le
funzioni delle normali forze di polizia. La novità risiede nel fatto che la EGF
risponde esclusivamente a un comitato interministeriale composto dai ministri
degli Esteri e della Difesa dei paesi firmatari, con una posizione di rilievo
della Nato che avrà voce in capitolo nell’utilizzo della Gendarmeria. A
usufruire del bel servizio le principali organizzazioni internazionali, in
particolare l’Unione Europea, l’ONU, l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e
la Cooperazione in Europa) e, ovviamente, la Nato. E dove avrà sede il Quartier
generale di questa “forza di polizia multinazionale a statuto militare”?
Vicenza, città molto amata a quanto pare dagli americani visto che è presente
anche la base militare Camp Ederle dove svolge i suoi compiti la Southern
European Task Force e dove nel 2013 si affiancherà la seconda base americana al
Dal Molin, sede dell’AFRICOM (comando americano per i quadrante
mediterraneo-africano).
UN
PASSO INDIETRO
C’è qualcosa di strano in questo insieme di avvenimenti che
stiamo cercando di mettere in relazione: i documenti a cui facciamo riferimento
non sono frutto di un’analisi attuale, ma della fine degli anni ’90 quando la
crisi sembrava ben lontana dai nostri confini. Eppure gli Stati prevedono, con
una strana e inquietante capacità preveggente, una situazione che poi si è
palesata sotto i nostri occhi: un crollo strutturale del sistema, una di quelle
crisi che il capitalismo attraversa ciclicamente, con una novità aggiuntiva. Se
prima gli Stati dovevano far fronte, loro stessi, alla crisi attuando nuove
politiche economiche e sociali, in questo nuovo scenario lo Stato e la classe
politica istituzionale sembra assumere principalmente un ruolo: gestire il
conflitto sociale, controllare in maniera pervasiva il territorio affinché ogni
eco di rivolta venga soffocato sul nascere. Lo Stato diventa il custode e il
garante della pace sociale, necessaria affinché nulla possa essere messo
realmente in discussione. Chi si mette, allora, al diretto comando della
politica economica fino a ricoprire i posti un tempo appannaggio dei
politicanti di turno? Le banche e le organizzazioni internazionali a tutela dei
loro interessi. A guidare i paesi sull’orlo del baratro ci saranno i politici-fantoccio
che seguiranno i dettami delle banche o ministri-tecnici, burocrati
apparentemente neutrali che di fatto sono diretta espressione degli interessi
bancari.
Una
riattualizzazione della gestione del potere dove lo Stato assolverà sempre più
il ruolo militare di custode della pacificazione sociale e le Banche
assumeranno in prima persona le gestione economica e politica della vita degli
Stati.
Ecco perché diventa
necessario, in vista di tempi ancora peggiori di quelli attuali, che gli Stati
siano radicati militarmente nel territorio, pronti a gestire e soffocare i
venti di rivolta, mentre le Banche disegnano un nuovo modello sociale.
NATO 2020: RIATTUALIZZAZIONE DELLA STRATEGIA DI
DOMINIO IN SARDEGNA
Se Nato 2020 delinea un nuovo modo di gestire la
conflittualità sociale, alcuni assi portanti del documento coincidono con una
strategia di controllo del territorio che in Sardegna ha radici lontane. Basta
andare indietro negli anni, per accorgersi come le direttrici di Nato 2020 rappresentino in Sardegna la
riattualizzazione di una progetto di
dominio in una terra in cui lo Stato da sempre ha dovuto gestire una
conflittualità sociale latente.
L’idea di un nemico interno e informale, ad esempio, è stata fatta coincidere nel corso degli anni
con la figura del bandito, a giustificazione di vaste operazioni di occupazione
del territorio; basta pensare all’operazione
Forza Paris, con la quale si portarono centinaia di soldati nelle zone più
riottose ad accettare la presenza dello Stato, la Barbagia. Il nemico non era
il bandito, quanto le comunità sarde che rappresentavano una resistenza
culturale e sociale interna ai confini dello Stato e il cui territorio andava
presidiato, soprattutto in una situazione di crisi economica quale quella
vissuta nei primi anni ’90. L’obiettivo dell’operazione era militarizzare un
territorio in cui il malessere andava acutizzandosi, pronto ad esplodere in un
generale contesto di avversione all’ordine dello Stato. Per rendere la presenza
dei militari più accettabile l’operazione venne presentata come un’azione di
ordine pubblico e i militari coinvolti in numerosi atti a valenza sociale:
donazioni di sangue, eventi pubblici e dimostrazioni al fine di fornirgli un
volto rassicurante, sdoganando l’idea della presenza militare in soli contesti
di guerra e rendendoli socialmente accettati. Fusione tra militare e civile per una militarizzazione del territorio,
quindi, come cita uno dei cardini di Nato 2020.
La
preoccupazione statale verso le forme di resistenza interna in Sardegna fu alla
base anche del processo di
industrializzazione, che guarda caso venne avviato sempre in un contesto di
crisi sociale quando alle promesse mancate del Piano Rinascita seguì un
riacutizzarsi delle tensioni e un ritorno della centralità del principio di
autodeterminazione dell’isola. Ancora
una volta, dietro la retorica di politici e giornali, c’era il progetto di
“eliminare quell’assetto sociale tradizionale consolidato con gli attuali
rapporti di produzione”[2]: a fare
paura non era il banditismo, ma la cultura agro-pastorale che incarnava una
concezione del lavoro e della produzione non compatibile con quella necessaria
a uno Stato capitalista. Per radicare il nuovo modello produttivo e prevenire
le possibili reazioni allo sconvolgimento in atto si adottarono degli strumenti
molto simili a quelli suggeriti da Nato 2020: si studiarono le abitudini delle comunità locali, definendo le
dinamiche interne ed individuando quei soggetti capaci di veicolare nelle
comunità la retorica del progresso industriale; con questo fine si
individuarono dei leaders, per lo più giovani, che avrebbero svolto un ruolo
trainante dei coetanei verso l’industria. Non solo: le scienze sociali vennero usate per studiare le dinamiche locali e,
dall’altra, offrirono una supposta base scientifica alla retorica che sanciva
la continuità tra società pastorale e banditismo. Non siamo molto lontani,
quindi, dal primo cardine della metodologia repressiva individuata in Nato
2020: comprendere, analizzare e mappare il territorio e i suoi abitanti
affinché lo Stato possa radicare il suo progetto di dominio.
MANUALE PRATICO DI
DOMINIO
Un discorso comune emerge
tra l’azione di dominio degli anni passati e quella che si sta costruendo nel
presente. Tre coordinate per radicare tra la gente la “normalità” del
controllo, quattro strumenti con cui dominare il territorio: radar, caserme,
basi militari e carceri.
Primo punto - Creare
una figura nemica
Se al tempo erano i
banditi, oggi il nemico con cui giustificare la militarizzazione del territorio
è il terrorista o il migrante, tanto che
per sdoganare l’installazione dei radar si è invocato proprio lo spettro
dell’immigrazione. Il vero nemico dello Stato, in realtà, è interno ai suoi
confini, percepito come portatore di una potenziale conflittualità che può
contagiare l’intero tessuto sociale.
Secondo Punto – L’inserimento del
militare nel contesto civile
Secondo un sondaggio condotto dall’ISPO (Istituto per gli
Studi della Pubblica Opinione) il 90% del popolo italiano ha un giudizio
positivo delle Forze Armate. Però gli italiani affiancano ancora oggi il
militare alla guerra, non a una funzione civile. Come abituare il civile alla
vista del militare? Facile, gli si dà un volto nuovo e rassicurante: operazioni
“Strade Sicure” o “Strade Pulite”, la vigilanza pesca, il controllo dei flussi
migratori, l’intervento nel territorio colpito da calamità naturali, il
servizio meteorologico, il trasporto di malati e traumatizzati, il concorso per
la demolizione delle opere abusive. Affinché il civile prenda confidenza, il
militare lo farà accomodare nella propria casa: si promuoveranno nelle scuole
visite nelle caserme, nei musei militari, negli enti e comandi operativi, si
darà spazio a iniziative come “vivi le forze armate, militare per tre
settimane”. Per rafforzare ancora di più la figura del militare come funzione
civile, si è pensato ha una stretta collaborazione con i giornalisti: nel 2011
si è svolto l’ 8° corso formativo, finalizzato alla conoscenza e alla
prevenzione del rischio in aree di crisi, con esercitazioni pratiche presso
sedi e corpi delle quattro Forze Armate, al fine di incrementare l’osmosi tra il mondo mediatico e il Ministero della
Difesa. Obbiettivo: diffondere una “cultura della difesa”, al fine di
accrescere una forte consapevolezza e un diffuso e durevole consenso intorno
alle scelte di “politica della difesa”.
Terzo punto – Militarizzare il territorio
Il controllo del territorio non sarà in più in vecchio
stile, con l’occupazione massiccia di soldati, ma sotto una nuova veste: la
diffusione su tutto il territorio di strumenti di controllo ad alto potenziale,
in cui industrie delle armi, istituti di ricerca e università, insieme ai
ministeri della difesa investiranno soldi e risorse. L’obiettivo è rendere il
controllo capillare e diffuso, a limitato impatto sociale e visivo, ma ben
presente per monitorare in una fase preventiva ed intervenire in un’eventuale
fase esplosiva. E così i radar spunteranno su tutte le coste e le basi
diventeranno i nuovi centri operativi, delineando una strategia del controllo
in cui le tecnologie militari saranno le vere protagoniste.
I RADAR
Verranno installati due tipi di Radar:
Il Radar ELM 2226 è in
grado di individuare un periscopio tra le onde e un piccolo gommone a 20 km di
distanza, capace di seguire e individuare più di 200 bersagli
contemporaneamente stabilendone la velocità, la direzione e le dimensioni. 16
verranno installati nelle coste Italiane da Almaviva S.p.a., di cui 4 in
Sardegna con un costo di 5.461.668,67 euro e gestiti dalla Guardia di Finanza.
Il Radar VTS o Radar
“Lyra”, modello “10” per il monitoraggio a breve raggio e il trasporto mobile;
ne verranno installati 90 da Selex Sistemi Integrativi, di cui 11 in Sardegna
con un costo di 350.000.000 euro e gestiti dalla Guardia Costiera.
Entrambi i Radar vengono
posizionati all’interno di parchi naturali e zone a demanio militare per
impedire, dopo i ricorsi al TAR presentati dai Comitati No Radar e comuni, che
si possano bloccare ancora una volta i lavori.
PIANO AMPLIAMENTO DEL PISQ
Prevede la costruzione di una “striscia tattica
polifunzionale”, che tradotto dal pudico linguaggio del ministero delle bombe
significa aeroporto militare. Già, un bel aeroporto di un chilometro e mezzo,
che tanto per cambiare viene a insozzare una zona ad alto valore ambientale e
faunistico come il complesso delle grotte de Is Angurtidogius.
L’anello di congiunzione
tra NATO 2020 e questo aeroporto sta nella tipologia dei velivoli che
decolleranno dalle sue piste: droni detti anche per gli appassionati di
acronimi UAV (Unmanned Aerial Veicle), cioè quella tipologia di arma che si è
distinta negli ultimi anni per le stragi di civili afgani e pachistani (secondo
fonti non ufficiali, l’80% delle sue vittime è composto dalla popolazione
civile). Il drone si presenta come l’arma per eccellenza contro quelli che i
think tank NATO chiamano “insurgents”, cioè popolazioni insorgenti; non è un
caso, infatti, che Israele usi i droni per uccidere gli oppositori politici
palestinesi, facendone largo uso anche durante l’operazione di pulizia etnica “piombo fuso”. Il drone rappresenta l’apice tecnologico
militare per la repressione e il controllo di cui si stanno dotando le polizie
europee per il controllo delle periferie “calde” delle metropoli: la
polizia francese utilizza i droni del progetto Elsa per controllare le
instabili periferie parigine, quella inglese usa i droni della British
Aerospace per tenere sotto osservazione Londra e dintorni, la polizia tedesca
ha già usato il drone UAV 4.1000 per filmare e seguire un intero corteo; nel
nord Irlanda, il partito unionista spinge per dotare la PSNI di droni da
utilizzare in funzione antiguerriglia. Quella di Monte Cardiga sarà
probabilmente la più grande pista per droni costruita in Europa, la Sardegna
sarà l’epicentro di uno dei più importanti tentativi di aggiornamento
tecnologico della repressione e del controllo.
Intorno alla nuova pista di Quirra si sviluppa, infatti, il
cosiddetto progetto “ Neuron”, un investimento da 400.000.000 di euro che
coinvolge cinque stati con le loro relative industrie di morte : la Francia con
la Dassault, Italia con Alenia, Svezia
attraverso la SAAB, Spagna con CASA-EDAS e infine la pacifica Svizzera con la
RUAG. Si tratta di una concentrazione di interessi che ha come scopo la costruzione del primo drone armato
europeo. Ma se tanti soldi ci portano a pensare a una “semplice”
speculazione delle industrie militari, in realtà la pista sperimentale sarà un
vero e proprio centro operativo, guarda caso proprio in Sardegna.
I PROGETTI NASCOSTI
Droni, radar, videosorveglianza, tutto rientra in un
sistema di data base che come punto di raccolta è il Network Centric Warfare,
che ha come scopo trasformare ogni territorio d’intervento delle truppe
d’occupazione in una perfetta mappa elettronica dove esercitare quello che ,
senza troppi veli, viene chiamato “ampio spettro del dominio totale”, in
sintesi tutto quelle informazioni che vengono raccolte da qualsiasi sistema di
controllo( e qui la falsa distinzione tra controllo civile e controllo militare
decade completamente) viene canalizzato da vari “sensori” verso dei centri
decisionali che praticamente in tempo reale decidono come intervenire sul
campo.
Questa fitta ed ampia rete
di sorveglianza rientra nel progetto Forza NEC (Network Enabled capability) che
prevede investimenti pari a 22 miliardi di euro in un periodo di 25 anni,
attualmente siamo già arrivati alla
seconda aliquota da 475 milioni.
Il NEC prevede tra i suoi
progetti anche quello definito “ Soldato del Futuro” dove praticamente ogni
soldato sarà dotato di sensori audio e video che lo trasformeranno in una
piccala centrale di controllo mobile diventando terminale ultimo della funzione
chiamata in gergo NATO C4I
(command, Controll,
Communication, Surveillance,reconnoisance).Dal satellite al drone , dalla
telecamera per strada alla spia con Web cam nulla deve sfuggire alla
pianificazione dello spionaggio interno NATO.
IL RITORNO ALL’ORDINE
Se
pensiamo che le vecchie galere siano ormai retaggio del passato, Nato 2020 ci
toglie ogni dubbio: in una seconda fase, quando
sarà necessario ristabilire la legge e ricostituire le autorità locali messe in
crisi dalle rivolte sociali, il carcere servirà a contenere i nemici e a
presidiare il territorio. Entra quindi a far parte di quell’azione chiamata
the rule of the law, rappresentando
il ritorno all’ordine e radicando nella popolazione la necessità dello Stato
che lo invocherà quale simbolo di sicurezza sociale. Non deve stupire, quindi,
che da un lato lo Stato si doti di nuove e sofisticate armi di controllo,
sempre più diffuse e pervasive ma meno visibili, dall’altro non dismetta i
tradizionali strumenti della repressione. Il carcere, ora più che mai,
rappresenterà fisicamente il controllo dello Stato sul territorio, una
sentinella efficiente e sicura necessaria in una seconda fase di
marginalizzazione del nemico, mentre le nuove tecnologie di controllo
assolveranno una funzione di prevenzione e individuazione delle sacche ribelli.
Il
Disordine
La funzione storica di isolamento e punizione sarà
mantenuta dalle nuove carceri, ma con una novità: se il principale nemico dello
Stato sarà interno ai propri confini e senza una struttura organizzata
facilmente individuabile, il pericolo da scongiurare sarà la generalizzazione
del conflitto sociale, in una parola, il contagio della rivolta. La pericolosità del crimine sarà
commisurata in base alla sua possibile ripetizione e diffusione, e punire
significherà isolare gli elementi di disordine per impedire un effetto domino
che rischierebbe di diffondere la protesta ben oltre i confini statali. In
quest’ottica, gli Stati useranno una doppia arma: da un lato una sapiente
gestione mediatica, per cui le rivolte in atto in altre paesi (soprattutto se
appartenenti al cosiddetto mondo occidentale) saranno trattate in termini di
criminalità e il loro contenuto politico minimizzato; dall’altra il sistema
repressivo inasprirà le proprie pene nei confronti dei reati politici o legati
a manifestazioni di disordine.
Isolare
gli insorgenti
Aprile
2009, circolare del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria): “i
detenuti sottoposti al regime carcerario speciale devono essere ristretti
all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno
di sezioni speciali e logisticamente separate
dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia
penitenziaria”. In poche parole: si abolisce il circuito ad Elevato Indice di
Vigilanza (EIV) e si introduce il circuito Alta Sicurezza (AS) suddiviso in 3
sotto circuiti: AS1 per i reati di mafia, AS2 per i reati di terrorismo o
sovversione dell’ordine democratico, AS3 per i prigionieri del vecchio EIV. Al
momento, non essendo ancora pronti gli istituti insulari (su questo punto ritorneremo
perché ci riguarda da vicino), i detenuti per reati politici (quelli destinati
all’AS2) sono rinchiusi in sezioni speciali per appartenenza ideologica: i
comunisti a Siano e Carinola, gli anarchici ad Alessandria e gli islamici a
Macomer e Benevento. Ma quali sono le conseguenze di una tale ristrutturazione,
che si basa sull’isolamento dei detenuti politici in sezioni apposite e sul
loro confino in carceri insulari?
Se, come abbiamo visto, la
paura da scongiurare è quella di una generalizzazione del conflitto e una
diffusione della coscienza politica nei rivoltosi, allora anche il sistema
repressivo deve fare la sua parte e fare in modo che il detenuto politico venga isolato dentro e fuori le mura. Tre gli
obiettivi:
* una carcerazione più
sistematica, basata sull’isolamento totale e l’allontanamento dal proprio
contesto di riferimento, mira ad annullare
l’identità del detenuto e a spezzarne la resistenza;
* raccogliere i detenuti
politici per appartenenza ideologica vuol dire evitare possibili dialoghi tra
aree diverse e dall’altro chiudere la discussione entro un circolo
ideologicamente omogeneo che porta con sé stagnazione del confronto,
inasprimento delle diversità e punti di rottura;
* impedire il contatto tra i detenuti politicizzati e i detenuti comuni:
in questo modo si impedisce che il detenuto comune prenda coscienza e si
evitano le rivolte dentro le carceri stile anni ’70, con le quali si portò il conflitto sociale anche dentro le
mura.
Anche in questa
ristrutturazione interna del sistema carcerario, quindi, ricompaiono alcune
direttrici di Nato 2020: individuare il nemico interno, disegnarne un profilo
psico-sociale, isolarlo dal resto del contesto per prevenire un’estensione del
conflitto, rinchiuderlo in ghetti ad alto controllo in cui annullarne
l’identità e il desiderio di cambiamento. “Frantumare
la coesione e la volontà di combattere”, queste le parole di Nato 2020.
Terra di confino
(dal 1998), Nato 2020: gli
Stati si devono dotare di un efficiente sistema carcerario in cui rinchiudere
il nemico per isolarlo dal resto della comunità;
(Aprile 2009), Circolare
DAP: nuovo sistema di sicurezza da realizzarsi in carceri insulari;
(Gennaio 2009), Consiglio
del Ministri vara il Piano Straordinario
Carceri: 8 nuove carceri, di cui 4 in Sardegna.
Coincidenze? Sarà..intanto
in una terra che vanta il più alto numero di carceri in proporzione al numero
di abitanti, lo Stato sente la necessità di costruire 4 nuove strutture con
relative sezioni di massima sicurezza. Perché? Una risposta è quella che il
documento Nato 2020 ci ha già fornito, e che lo Stato italiano ha fatto
propria, adeguando il proprio sistema repressivo alla nuova metodologia di
controllo. Ma non basta. Il malessere sociale, come alcuni studi indicano[3], si
acutizzerà anche nell’isola soprattutto a livello urbano e secondo tre
direttrici:
* criminalità nei centri urbani alimentata da un inasprimento della
povertà;
* criminalità nelle zone costiere dove il miraggio del turismo ha
portato cambiamenti d’uso del territorio destinati unicamente al
soddisfacimento dei desideri del turista; in queste zone si acuiranno i
conflitti legati all’economia turistica e la criminalità giovanile legata alla
ricerca del soddisfacimento dei modelli di consumo;
* criminalità nelle zone interne dove disoccupazione, spopolamento e
crisi dei settori tradizionali porteranno le fasce disilluse dalle promesse di
modernizzazione a prendere da sé ciò che gli viene negato.
La costante sarà la
disillusione, ereditata dai padri che vedono sgretolarsi i sogni di benessere e
occupazione, e una nuova consapevolezza: che le politiche di sviluppo,
generosamente finanziate con danaro pubblico, hanno rappresentato occasioni di
ricchezza per pochi e un fallimento per le zone già povere, e che il turismo,
indicato come trainante dell’intera economia, produce una ricchezza che non si
ferma in Sardegna o, quando ciò avviene, favorisce una cerchia ristretta e
ripropone nuovi squilibri territoriali. Tutto ciò renderà più amara e
inaccettabile la condizione materiale di questi “insoddisfatti”, alimentando
così un malessere sociale sempre più radicato e difficilmente gestibile.
Le nuove carceri, quindi, rispondono alla necessità di
isolare gli elementi riottosi provenienti da fuori e, allo stesso tempo, di
gestire le conseguenze di un malessere sociale che in Sardegna ha radici
lontane ma i cui effetti rischiano di esplodere nel presente.
SARDEGNA 2020
Il ruolo di “retrovia” è ormai acqua passata , non solo
perché il fronte che le “urban operations” prevede sarà un fronte sostanzialmente
interno, ma anche perché la nostra isola si trova sul nuovo confine
caldo dell’alleanza atlantica…il Mediterraneo, che ribolle di popoli che
insorgono, di popoli che si spostano, di popoli che iniziano ad essere
difficilmente gestibili. Trovarsi su questa linea di confine significa prima di
tutto una cosa: rafforzamento delle strutture militari esistenti. Se tutto ciò
vi sembra esagerato, chiedetevi quanto è stato investito per la costruzione di
infrastrutture (strade , ferrovie, fogne, ma fosse pure mettere l’asfalto sulla
Carlo Felice …) e quanto è stato investito nella costruzione e ampliamento
nelle strutture militari in Sardegna….
Negli ultimi tre anni in Sardegna non è stato
costruito un metro di strada per non parlare di raddoppiare la linea
ferroviaria o addirittura la sua elettrificazione, in compenso tra poligoni,
radar, caserme e carceri sono stati spesi milioni e milioni di euro. Perché?
Speculazione? Non basta a spiegare tutto.
La mera speculazione non
spiega una spesa di 24.000.000 per la costruzione della nuova caserma della Brigata
Sassari a Nuoro, perché rubare 517 ettari di terreno pubblico e scippare
12.000.000 all’edilizia universitaria per costruire una caserma reggimentale
nel bel mezzo della Barbagia? Che senso ha per un reparto come quello della
Brigata “SS” che si è prestato per ogni missione imperialista dell’esercito
italiano? Visto che si è divertita a portare la democrazia a colpi di fucile in
ogni angolo del pianeta non sarebbe stato più logico costruire una struttura
del genere vicino a porti o aeroporti o comunque vicino a un punto che rendesse
gli spostamenti più facili …. Insomma dal punto di vista logistico, comunque la
si guardi, quella caserma in quel posto non ha alcun senso, a meno che…
A meno che non abbia un
altro scopo, e lo scopo è quello di “….modellare, gestire lo spazio per
ottimizzare la mobilità dei militari sia per esigenze tattiche sia per
controllare e prevenire i movimenti del nemico e delle masse non coinvolte nei
combattimenti..”[4] . La Sardegna non ha grandi slum o periferie
irrequiete, ma ha grandi territori che storicamente risultano poco disposti a
sottoporsi alla “ rule of law”. E allora, come controllare un territorio vasto
con una popolazione dispersa? Semplice,
si moltiplicano i centri di controllo non più, come in passato, solo nelle zone
a rischio, ma in ogni punto dell’isola affinché sia dominata da un’immensa rete
di controllo; le sentinelle del potere saranno negli angoli delle strade,
perché il malessere si diffonderà anche nei centri urbani, dalle zone del
turismo a quelle dove cresce la disoccupazione giovanile; saranno nelle zone
interne storicamente insofferenti alla presenza dello Stato, ma anche sulle
coste. Tutto ciò risponde a una semplice
necessità: se il malessere si diffonde,
se il rischio di rivolta non è più circoscritto ad alcune zone calde, allora il
controllo dovrà essere capillare e si dovrà dotare di tutti i nuovi e vecchi
sistemi per reprimere e continuare a dominare.
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